lunedì 1 aprile 2024

Jean e le nuvole

Jean era rimasto per intere giornate a osservare gli impercettibili cambiamenti delle nuvole sul mare.

Era l’estate dell’anno precedente.

I raggi penetranti del sole provavano a farsi spazio fra la massa all’apparenza compatta formata da una quantità infinita di minuscole particelle di vapore acqueo. Una massa il cui grigiore minaccioso era esaltato dal giallo dorato dei fasci di luce solare che, seppur limitati dal cumulonembo a sviluppo verticale, torreggiante nel cielo, riuscivano in parte a far capolino. In essi Jean leggeva una manifestazione del divino, un segnale di un’entità superiore, sovrumana, a sottolineare una trascendenza che la sua vita, per quanto straordinaria, non poteva lontanamente toccare. Nonostante la sua biografia non fosse quella di un comune mortale (lui, uno dei quattro moschettieri del tennis francese, dominatori della racchetta a livello mondiale) lo spettacolo di quella luce e di quelle nubi che a essa sembravano pigramente opporsi, gli suggeriva un altrove inarrivabile, a lui precluso.

Quando Jean le fissava, le nuvole gli suscitavano infatti un senso di inadeguatezza, di umana e fragile finitezza. Lo ignoravano, muovendosi lente, da est verso ovest, un vento delicato a sospingerle, il calore del sole a intiepidirle, incuranti della sua presenza. Ritornava col pensiero al luglio del 1924, il suo primo trionfo a Wimbledon, la vittoria contro l’amico René, il trofeo consegnatogli da George Edward Alexander Edmond, duca di Kent, l’applauso eccitato del pubblico, la sensazione di superiorità che lo pervadeva, il compiacimento di vedere una folla osannante, il battere ritmico delle mani sulle tribune, le urla di alcune tifose che, ne era, sicuro, lo avrebbero divorato con le loro labbra di rosso dipinte.

I suoi occhi neri sfidavano i raggi solari, ma il timore di rimanerne colpito e una sensazione di “scioglimento” gli intimavano di desistere dalla visione. Che cosa si scioglieva? In una frazione di secondo veniva meno la certezza in sé stesso, nei propri mezzi atletici, nel suo fisico scattante, svaniva la sicurezza, l’arroganza agonistica, sua fedele compagna che in molte occasioni gli aveva consentito di ribaltare dei match dati per persi, di farsi largo fra uno stuolo di tennisti, affamati di successo quanto lui, ma, a differenza sua, Jean “The Bounding Basque”, il basco dinamico, destinati alla sconfitta.

Com’erano affascinanti i bagliori del tramonto! Era l’ora della meditazione, le palpebre si abbassavano, il luminoso calore pomeridiano lasciava man mano spazio a una frescura che si insinuava sotto la maglietta dalle maniche corte, le gambe erano invece riparate da bianchi calzoni di lino, il suo respiro trovava naturale sincronizzazione con lo sciabordio delle onde, l’attenzione focalizzata sull’espandersi e il contrarsi dell’ampio petto, alcuni minuti di insensibile piacevolezza interiore, interrotti dal garrito di un gabbiano che lo richiamava alla realtà, lo sguardo si riapriva al mondo, il sole prossimo a evaporare, il freddo della sera incombente, il suo voltarsi, passi rapidi in direzione del Grand Hotel, Arlette ad attenderlo.

martedì 19 marzo 2024

sabato 2 marzo 2024

Il foglio bianco

Il foglio rimaneva mestamente bianco.

Mi era difficile, se non impossibile, disegnare il volto di un personaggio dei fumetti che mi piaceva. Ancora, ancora, se avessi potuto copiarlo, avendo a portata di mano, d’occhio, l’originale, ma così su due piedi, contando sul solo ricordo, sull’immaginazione, la mano non era in grado di tradurre in un tratto grafico quanto la mente andava nebulosamente raffigurando.

Ero disperato.

Mancavano solo dieci minuti alla fine dell’ora di disegno.

Sentivo gli occhi lucidi per lo sconforto.

Alzai timido la mano, la Maestra, per me figura imponente e che metteva soggezione, mi chiese cosa volessi.

Andare in bagno, mi scappa la pipì”

Il “vai!” in risposta fu una liberazione, di corsa aprii la porta della classe, percorsi il corridoio e m’infilai nel bagno dei maschietti. Obiettivo: rimanervi dentro, nascosto, fino al termine della lezione.

Obiettivo mancato.

Il semibuio del cesso fu rischiarato dall’improvvisa comparsa della Maestra, ricordo ancora la su gonna beige e il pullover nero, che, senza dire nulla mi prese con stizza il braccino destro e mi ricondusse, sconfortato, sull’orlo del pianto, di nuovo in classe. Aveva compreso il mio tentativo di evaporazione, il volermi nascondere al mondo, rifiutando il compito che mi aveva imposto a inizio lezione. Non poteva accettare un atto di insubordinazione belle e buono, da parte di uno scolaretto che, lo avevo intuito già nel passato, le stava pure antipatico.

Tornai al banco, il foglio bianco mi attendeva irritato quanto la Maestra, reclamando invano che lo riempissi con la mia matita.

domenica 18 febbraio 2024

La neve e la carota

Raccolgo la carota caduta a terra, tracce di fanghiglia l’hanno insozzata, con la mano provo a ripulirla (il problema sarà poi lavarsi in qualche modo la mano prima d’arrivare in ufficio). La carota riacquista l’uniforme colore arancione. La inserisco delicatamente al centro della faccia del pupazzo di neve. Devo fare attenzione, il pupazzo mostra evidenti segni d’una fragilità che lo sta progressivamente indebolendo, un venir meno della sua integrità direttamente proporzionale all’aumentare delle temperature. Sembra passata un’intera stagione, ma non più tardi di sabato scorso una nevicata fuori tempo massimo aveva ricoperto le strade d’uno strato bianco compatto spesso almeno 10 centimetri. Passato il weekend l’esplosione di un'anteprima di primavera. La massima di martedì segnava 22 gradi. Dal bianco al grigiomarrone del fango. Sul pupazzo di neve (chi sarà mai l’autore?) erano sbocciate delle cicatrici, la primigenia simmetrica paffosità del corpo violata dal cedimento del lato sinistro, una silhouette ora sgraziata, prossima alla sparizione, la carota non più trattenuta nel volto a preannunciarne l’ineluttabile eclisse.

sabato 27 gennaio 2024

A colpi di spatola

Era il primo trasloco in vita mia, una vita breve, da poco superati i 16 anni, per un cambio abitazione in versione light, si trattava di spostarsi dal primo al secondo piano della casa di ringhiera dove ero nato e dove vivevo con mamma e papà. Il cambio rappresentava un piccolo ma significativo miglioramento tenuto conto che nel nuovo appartamento avremmo avuto finalmente il bagno in casa e una luminosità, data dal piano più alto, migliore. Il bilocale necessitava però d'una ristrutturazione non banale, si dovevano tinteggiare i muri, aggiungere una parete divisoria di compensato per ricavare da un unico locale una cucina e una sala, rinnovare i sanitari del bagno.

Il team adibito ai lavori era composto da un quartetto: mio padre, mia madre, Enrico (cugino falegname da parte di papà) e... il sottoscritto. Non era ancora chiaro il tipo e la qualità del supporto che avrei potuto dare tenendo conto delle mie esperienze nulle nel ramo edilizio/idraulico. Non era neppure certo che sarei stato utile alla causa, gracile ragazzetto con la schiena curva sui libri, che pochi mesi prima non aveva trovato il coraggio di sbarazzarsi di Gelsomino, l'orsacchiotto "coperta di Linus" che mi aveva tenuto compagnia nell'infanzia.

Il grosso dell'attività se la sarebbero smazzata mio padre e Enrico, quest'ultimo in particolare, visto che papà andava per i sessanta e mostrava i primi segni di un indebolimento fisico che manifestò la sua gravita solo qualche mese dopo (il trasloco iniziò nel mese di giugno, la malattia diede i primi significativi segnali verso ottobre). La mamma avrebbe continuato nella sua quotidiana attività di massaia, c'era la truppa da sfamare e una casa, quella in via d'abbandono, che reclamava comunque delle attenzioni, garantite dalla pignoleria di mia madre. Alla bisogna poteva affiancarsi a chi ne avesse fatto richiesta: era una donna in salute, forte, scattante, aveva ereditato dal nonno un'energia e una voglia di fare non comuni.

Enrico e papà partirono in quarta con la sala/cucina, raschiando in minima parte le pareti per poi stuccarle. Di Enrico mi impressionava la mano destra, mancante del mignolo e di metà anulare, ricordo di qualche lavoro di falegnameria che aveva lasciato il segno: nel mio futuro, per fortuna, seghe o altri attrezzi pericolosi non erano contemplati, avrei digitato sui tasti di un computer inserendo software. Papà si dava da fare, notavo solo un leggero incavo nelle guance da sempre belle pienotte e una lieve riduzione della pancia sulla quale, da bimbo, avevo spesso appoggiato la testa quando si sdraiava sul divano per vedere la tv Brionvega 20 pollici in bianconero (era soprannominato "Il Pancio Villa" dagli amici della "Cooperativa Avanti" che frequentava la domenica).

E il sottoscritto?

Dopo un veloce consulto fra i due uomini adulti della compagnia, mi fu assegnato un compito all'apparenza banale: scrostare le pareti della camera da letto che sotto l'ultimo strato beige di vernice nascondevano, ma non del tutto, un secondo strato rosso pompeiano che, a detta di Enrico, era obbligatorio rimuovere altrimenti si sarebbe corso il rischio di vederlo riemergere post imbiancatura.

Mi venne assegnata apposita spatola d'ordinanza.

Iniziai il lavoro sotto la supervisione di mamma, fu lei a mostrarmi come procedere nella scrostatura. Mi colpì la rotondità delle sua braccia, aveva bicipiti muscolosi che trasmettevano la forza necessaria alla spatola per staccare l'intonaco. L'attività si mostrò molto più dura del previsto: nonostante i colpi decisi di mamma lo strato rosso pompeiano sembrava essersi legato indissolubilmente alla parete. Di rado si staccavano pezzi significativi di vernice, il più delle volte era un procedere di pochi centimetri la volta. A spanne, tenendo conto della lunghezza e dell'altezza delle quattro pareti, avevo di fronte a me più circa 50 mq da bonificare. Iniziai di buona lena, scegliendo come punto di partenza la piccola porzione di parete sulla quale mia madre si era focalizzata. Dopo una mattinata senza sosta di spatolate (escluse due capatine al bagno) avevo completato poco più di 2 mq: mi attendevano una decina di giorni full time per terminare il lavoro. Non che la cosa in se mi spaventasse, le attività ben definite che richiedevano scarso se non nullo impegno intellettuale, ripetitive, avevano un potere rilassante, calmavano le ansie adolescenziali che vivevo in quel periodo. Ogni tanto i miei si affacciavano sulla porta della camera da letto, davano una rapida occhiata al sottoscritto che menava colpi sui muri della stanza, io mi voltavo quando ne percepivo la presenza, incrociavo i loro sorrisi nei quali leggevo un che di divertimento nell'osservarmi, mischiato, così immaginavo, alla soddisfazione per il contributo inaspettato che stavo dando.

Col proseguire dei giorni la scrostatura perse gran parte dell'attrattiva iniziale: il palmo della mano destra si era arrossato, quando spingevo la spatola contro il muro il manico dell'attrezzo premeva il palmo determinandone il rossore e un dolore via via crescente. I risultati erano tangibili, ma l'avanzamento dell'opera somigliava sempre più a una fatica d'Ercole.

"Stai procedendo bene, PNV" lo sguardo di mio padre scrutava soddisfatto l'intera prima parete scrostata.

"Sì, ma me ne mancano ancora tre!"

"Un po' per volta, pian piano la finisci" le sue parole d'incoraggiamento.

Ne osservavo il viso, le rughe sulla fronte si erano accentuate e un pallore, che mal si abbinava al sole di quel caldo giugno, risaltava sulla pelle.

"Non avrei mai detto che eri così preciso..." aggiunse mia madre il giorno successivo "... hai preso da me e dal nonno Pietro. Quando lo aiutavo a fare i materassi voleva che ci mettessi impegno, anche se il grosso del lavoro era il suo, io mi limitavo a dargli una mano".

La certificazione materna accresceva l'autostima. Pensare al completamento dell'opera, alle quattro mura liberate dal rosso coriaceo, avrebbe moltiplicato la sensazione di fatica. Adottai un accorgimento che si rivelò ottimo: comparare l'avanzamento della scrostatura alla conquista di territori nemici, ipotetica guerra per l'espansione di un impero, il mio, che sottraeva man mano province, regioni, stati a un impero avversario. Non ero più PNV, il nano gracile secchione, ma un novello Napoleone Bonaparte che, una volta assogettata l'Europa occidentale, stava per conquistare la Grande Madre Russia: questa volta con esito differente da quello storico. Dopo la presa di Praga mi mossi in direzione Varsavia, l'avrei raggiunta la mattina del sesto giorno, per dirigermi con rinnovato vigore fino alle porte di Minsk, pomeriggio inoltrato dell'ottavo giorno, attraversamento rapido della città di Smolensk, una cinquantina di spatolate al massimo, ingresso trionfale a Mosca a mezzogiorno del decimo giorno, il palmo della mano destra al limite delle piaghe.

Chiamai mio padre (non avevo il coraggio di coinvolgere Enrico, non credendo di poterlo impressionare con la mia impresa, lo lasciai all'installazione della parete di compensato, stava rifinendo l'arco che divideva cucina e sala) per mostrargli la caduta della capitale russa: sulle quattro pareti della camera da letto era sparita ogni minima traccia di rosso.

"Ottimo lavoro, bravo..." la sua mano sulla mia spalla "... stasera la mamma ti preparerà una bella pizza per festeggiare".

Chi avrebbe immaginato che scrostare dei muri, togliere un intonaco di vecchia data, avrebbe rappresentato un passaggio significativo della mia vita? Dieci giorni che non sconvolsero il mondo, per rimanere in tema di imprese russe, ma furono il segnale di una svolta interiore, il primo passaggio, altri più significativi ne sarebbero seguiti, dall'infanzia, dalla prima adolescenza, a un PNV che si avvicinava a essere adulto.

La sera tre pizze, preparate da mamma, a comporre una cena differente dal solito (Enrico non si fermò, aveva delle faccende da sbrigare a casa sua). Sei braccia a tagliare fette di pizza, per la prima volta sei braccia adulte, alle quattro che lo erano da sempre si erano aggiunte le mie due. Mai avrei immaginato che quelle sei braccia, pochi mesi dopo, sarebbero tornate di nuovo quattro.

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